Obiettivi del corso L’epistola agli Ebrei è, dopo quelle di Paolo, la più lunga e la più importante del Nuovo Testamento. Ciononostante è stata riconosciuta definitivamente nel canone delle Sante Scritture soltanto all’inizio del 5° secolo, senza dubbio a causa del suo anonimato e dell’assenza di ogni riferimento ad un’autorità apostolica. Il titolo “agli Ebrei” non figurava certamente sullo scritto originale, ma appare a partire dall’ultimo quarto del 2° secolo. L’epistola è anonima: non porta il nome del suo autore, né dettagli sufficienti per identificarlo. Era un cristiano di origine ebrea, versato nelle Scritture e familiare con il rituale levitico. Non ha conosciuto personalmente Gesù e il vangelo gli è pervenuto tramite i primi testimoni. Il suo vocabolario, il suo stile, la sua maniera di interpretare la Scrittura e l’utilizzo di certi temi tradiscono l’influenza della scuola rabbinica di Alessandria... L’autore definisce la sua epistola come una parola di esortazione o di incoraggiamento, un’espressione utilizzata in Atti 13:15 per un sermone. In effetti, numerose esortazioni e avvertimenti si interpongono nello sviluppo dottrinale. Quest’ultimo conduce alla preminenza di Gesù Cristo, creatore e proprietario dell’universo, erede del cosmo, Sommo Sacerdote del nuovo patto, “Colui che crea la fede e la rende perfetta”, superiore agli angeli, a Mosè, a Giosuè e ai sacerdoti della stirpe di Aronne. L’autore insiste sulla trascendenza della sua persona e della sua opera, sulla superiorità del nuovo patto rispetto a quello vecchio... Le esortazioni e gli avvertimenti scaturiscono da verità dottrinali richiamate alla memoria: poiché Cristo occupa una posizione così eminente, non trascuriamo la sua Parola, non priviamoci del riposo, così come ha fatto Israele nel deserto, non imitiamo la sua incredulità e la sua disubbidienza e non esponiamoci ad un possibile ritorno al mondo... (da 66 in Uno - A. Kuen -EUN)